Nasce in una famiglia di agricoltori, ultimo di tre figli. Il papà muore presto, poco dopo la sua nascita; la sorella, giovane sposa, di lì a poco si trasferisce con il marito in Costa d’Avorio dove purtroppo, nel 2011, è una delle tante vittime della guerra civile. Restano in tre a coltivare le terre lasciate dal padre in eredità. Fare l’agricoltore in Burkina Faso non è facile, il clima non aiuta ma si riuscirebbe a sopravvivere con i frutti del proprio lavoro, se non fosse per i pastori che lì sono potenti e troppo spesso arroganti: con le loro greggi distruggono sistematicamente il raccolto, non sentono ragioni e godono di protezioni. Di fronte alle proteste per l’ennesima devastazione, usano il macete: il fratello muore dissanguato e Idrissa viene ferito. Così non si può continuare e allora meglio andar via, in Senegal.
Idrissa ha diciannove anni, riesce a trovare lavoro in una sartoria e per tre anni impara anche l’arte del ricamo; il lavoro è mal pagato e quasi senza sosta ma almeno si può mandare qualcosa a casa dov’è rimasta la mamma. E la mamma, nel 2013, lo prega di tornare: sta morendo per un tumore.
Ora Idrissa è completamente solo e trova il coraggio di andare più lontano: in Libia dicono che ci sia lavoro, ben pagato. Il viaggio tutto sommato è breve e senza incidenti: tre giorni per attraversare il Niger su un fuoristrada fino a Gatrun. Idrissa non lo sa ancora ma è arrivato sulla rotta dei disperati: intercettato dalla Polizia, viene portato in un centro di raccolta, di fatto un carcere, dove resta rinchiuso per due mesi. Ma, nonostante tutto, è fortunato: conosce alcuni egiziani che gli offrono di lavorare nell’edilizia, riesce a riscattarsi pagando una tangente di 800 Dinari e segue gli egiziani fino a Sebha, dove continua a lavorare per qualche mese, e poi a Tripoli.
Ma il clima politico sta nuovamente degenerando: siamo nel 2015 e i conflitti tra le diverse milizie armate si fanno sempre più aspri. Idrissa segue l’esempio di tanti africani come lui e decide di tentare la traversata verso l’Europa. Si affida ai trafficanti locali e per un mese resta segregato in una specie di lager sulla costa con altri 100. Finalmente arriva la notte dell’imbarco, a Zuwara: è il 26 luglio 2015 e in 80 li caricano su un gommone.
Anche questa volta Idrissa ce la fa: una nave Ong li intercetta e li porta fino a Lampedusa dove resta in ospedale per una settimana per curarsi le ustioni provocate dal carburante.
Viene trasferito a Milano e subito a Como, al centro di accoglienza di Tavernola.
Passano due anni prima di avere riconosciuto il permesso di soggiorno umanitario: cinque giorni dopo è sulla strada.
E’ luglio, la stagione giusta per raccogliere i pomodori nelle Puglie, come uno schiavo, a 3 euro all’ora togliendo i 5 euro che servono ogni giorno per il trasporto che è obbligatorio, anche se stai a pochi metri dai campi.
Va un po’ meglio con la raccolta delle olive in Sicilia: lì ti danno 5 euro all’ora.
Quando anche le olive finiscono, torna a Como dove almeno qualche aggancio ce l’ha: Porta Aperta gli trova un posto per dormire nei tendoni invernali. Lavoro qui è difficile trovarne ma lui le prova tutte, instancabile e tenace, sa che bisogna tenere duro, che bisogna studiare la lingua e cercare di integrarsi. Si merita almeno un letto presso i Comboniani. E poi, tornata l’estate, ancora pomodori, finchè ce ne sono.
Ora è di nuovo a Como, ospite al dormitorio e con una speranza di cambiamento dalla messa in prova presso un’importante azienda di trasporti internazionali. Incrociamo le dita: da questo forse dipenderà la conversione del suo permesso umanitario in permesso di lavoro.
Lui ci crede e, quando ci pensa, sorride.